Capitolo XVI
(trascrizione a
cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)
15-24 luglio 1719
La carestia affligge la città. I pochi viveri
disponibili, di pessima qualità, venduti a prezzi esorbitanti. Impossibilità di
rifornirsi nella Piana ancora controllata dagli Spagnoli 15 luglio sino
al 24. Da detto giorno sino al 24 del sudetto mese la città ha patito una
carestia così grande, così di pane come d’ogni vettovaglia, che era un cruccio
intollerabile. Tanto che non si può esplicare. La cagione era derivata per non
aver in detto tempo venuto alcuna imbarcazione né da Napoli, né da Calabria con
alcuna sorte di viveri, come per il passato intercalatamente solevano
comparire. E benché avessero venuto alcune felughe, queste nell’istante erano
deputate [assegnate, ndr] per il
campo nella Marina di Tavormina. Perloché oltre la scarsezza, desiderandosi con
molt’ansietà pure qualunque cosa di puoco rilievo, si vendea quella poca
vettovaglia riguardata con molta cauzione a prezzo cossì esorbitantissimo che
sembrava un paradosso molto stravagante, avendo dell’incredibile. Almeno quello
che si vendeva fosse stato di mediocre qualità e non fetido e puzzolente…
Infine si vendette carne salata di cavallo venuta da Calabria a tarì uno e
grana dicidotto almeno per ogni rotolo. Onde l’afflizione nella città era
comune, senz’eccettione di qualità di persone. Poiché se le facoltose tenevano
qualche puoco di farine riserbate da più tempo, ancorché framezzate di molte
biade e luppini, non perciò si puotevano sostentare col solo pane. Del che si
può congetturare come se la passavano l’altre, specialmente le povere, per
certo che recava una compassione molto lagrimevole.
Inoltre per
essere tolto il commercio per tutta questa Comarca (dalla quale si sperava
alcun sollievo almeno di cacciagione, galline, ova, olive, fogliami ed altri)
non puotendosi uscire dalli cittadini nella Piana - ritrovandosi questa non
solamente scorsa ogni giorno con corriere d’alcune truppe di Spagnuoli a
cavallo, pure da molti villani armati della medema comarca, li quali tutti
svelatamente rubbavano tutto quello che ritrovavano (e non potendo far altro,
carichi di legna ed altri consimili) - la povera città dell’intutto si ritrovava
disperanzata a manutenersi solo per non morire di fame. E con tutte le sudette
turbolenze ed angustie non poteasi dar riparo, non avendo ove ricorrere per
viveri. E nemeno di scacciare li Spagnuoli per non esserci in città quella
quantità di truppe tudesche, né a piedi, né a cavallo, proporzionate per
togliersi l’ambrocco sudetto, per essere molto puoche. Il che oculatamente
s’osservava. Onde si ricorrea alla clemenza del nostro Dio per ritrovarsi col
suo aiuto celeste la providenza necessaria, essendo ogn’umano disperanzato. E
con tutto ciò la malvagità d’alcuni sormontava in eccesso.
Continuano le diserzioni dalle truppe spagnole,
benché scoraggiate dal provvedimento che remunerava le collaborazione dei
cittadini Si
disse che tutta l’armata tudesca fosse accampata vicino la città di Messina per
conquistarla. Come pure che in Francavilla si ritrovassero cossì truppe
spagnuole, come soldatesche tudesche. Con molt’altre dicerie. E benché in questo
tempo avessero venuto più e più disertori spagnuoli in questa città, così a
cavallo come a piedi (ed un giorno un fante unitamente colla moglie, caminando
solamente la notte), non perciò si puotea penetrare la verità con ogni
schiettezza. Dicono li desertori che molti soldati spagnuoli avrebbero lasciato
il loro esercito prendendo la fuga. Ma il timore di non esser arrestati per la
strada dalli paesani, coll’ingordigia della mercede promessa dalli comandanti
spagnuoli, l’ha trattenuti.
Plan des retranchements des esp[agnols] et des allemands devant Milazzo, 1719
(Biblioteque National del France)
[http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b530425219.r=melazzo?rk=536483;2]
Trasporti via mare di viveri destinati a Messina - a
cura degli Spagnoli - riescono ad aggirare il “blocco” militare imposto dalle
truppe imperiali e dalle navi britanniche allo scopo di affamare la città dello
Stretto. Sparati due colpi di cannone dal bastione delle Isole allo scopo di
segnalare alle navi britanniche il transito di uno di questi navigli S’ha riferito
publicamente che nella città di Messina pure si stava in molta scarsezza di
viveri e che fosse stata ambroccata da tutto l’esercito tudesco, tanto per mare
dalle navi inglesi, come per terra dalle truppe. Bensì furtivamente le galere
di Spagna, con alcune felughe, conducono da Palermo alcuni viveri, osservandosi
di continuo allorché passano per questo Capo. Ed entrando in quella città di
nottetempo, per non essere discoperte da dette navi ed altri vascelli, li quali
stanno nel Faro per togliergli ogni soccorso di viveri e vettovaglie. E sotto
li 21 di detto mese, ad ore due di notte, furono sopra detto Capo tre galere
Spagnuole con alcune felughe. Perloché dal bastione della Porta dell’Isola,
nella Cittadella di questa, li furono disparati due tiri di cannone, colli
quali si volsero far avvisate le navi inglesi per esser vigilanti nel passaggio
dovevano fare dette galere nemiche per il Faro di Messina. Bensì doppo furono
poste di guardia quattro galere di Napoli con due navi inglesi vicino detto
Faro, nello Scaro delli Mortilli [Mortelle,
ndr], per impedire detto passaggio. E con tutto ciò non si puoté togliere la
comunicazione tenuta da detta città con tutta questa Comarca per terra, dalla
quale - come parziale delli Spagnuoli - si conducevano molti e diversi generi
di viveri dalli villani, e di giorno e di notte, senz’ostacolo alcuno. Per
esser libero il tragitto per le montagne tanto per la vicinanza, quanto per non
ritrovarsi dalla parte di Levante l’ambrocco sudetto dalle truppe tudesche.
24 luglio 1719
Ancora riflessioni sull’Assedio come castigo divino.
Nel convento dei Cappuccini tre religiosi decidono di trasferirsi al Capo -
contro la volontà del superiore - a causa della penuria d’acqua e della
presenza di militari infermi. Il padre vicario, ossia il loro superiore,
ricorre al comandante della Piazza per costringerli a tornare in convento 24 luglio. Con
tutto che in questa città s’avessero apertamente osservato le gravissime
afflizioni ed angustie delli cittadini in generale, particolarmente per la
scarsezza di qualsivoglia vettovaglia. E che S. D. M. [verisimilmente Sommo Dio Massimo, ndr] esercitando - per le gravi
enormitadi commesse - la sua giustizia. Non perciò si scorgea minima ombra
d’emendazione, anzi s’aumentavano gli misfatti, quando peraltro in tempi così
calamitosi si dovea procurare con ogni esemplarità l’emendazione per placarsi
un Dio sdegnato giustamente. Ed il peggio fu che se gli secolari come persone
più libere non badavano trattenersi negli limiti del dovere, anzi raffrenare le
loro volontà dal compiacimento delli sensi, almeno s’avesse osservato alcun
trattenimento nelli religiosi. Ma il tutto correa alla peggio. Ed in questo
giorno. Tralasciandosi molti e molti altri casi seguiti e consimili, e
peggiori, per non puotersi descrivere, essendo molto pregiudiziali alla vita
monastica.
Successero
alcuni disgusti tra il Padre Fra Serafino Cambria di Melazzo, Vicario in capite
nel convento de’ Padri Cappuccini in questa città, e li padri Fra Illuminato
Gioleonardo, Fra Giovanni Maria Cambria e Fra Cherubino Scalzo, pure Cappuccini
di questa città. Pretendendo questi sudditi uscirsene dal convento e retirarsi
nel Capo per alcuni giorni, con il pretesto non esservi in detto convento acqua
ed in esso commorare aquartierati molt’infermi soldati tudeschi. Ed oppugnando
il padre vicario coll’asserzione giustificata che in nessun modo dovea
lasciarsi in abbandono il convento, tanto per custodia d’esso in tempo che
persistea la guerra, magiormente che si ritrovava pieno di molte truppe.
Oltreché era vuopo attendersi con ogni fervore al culto divino e non lasciarsi
l’esercizij spirituali colla frequentazione delli orazioni, e per placarsi Dio,
e per darsi esemplarità alli secolari. Coll’assistenza nella chiesa,
giornalmente piena da molti devoti. E con molti raccordi profittevoli per
dissuadere alli sudetti padri dalla pretesa partenza, non fu possibile questi
placarsi. Anzi, con molta arroganza processero all’insolenze per non dir
violenze, volendo superare l’attentato. Perloché - vedendosi detto padre
vicario molto ed indiscretamente vilipeso dalli sudetti Padri, non avendo
riguardo dover soggiacere alla volontà del superiore coll’obedienza, tanto
celebrata nelle religioni, colla quale si conserva con ogni decoro la regola
monastica - per non esser sottoposto a magiori indiscretezze delli detti padri,
fu forzato ricorrere al signor comandante della Piazza per sedare questi
inconvenienti. Onde il sudetto signor coronello - avendosi informato dagli
altri padri e fratelli del convento e restando sodisfatto così della richiesta
del superiore, come dell’indiscretezza delli sudetti sudditi, spalleggiati da
molti loro congionti - ordinò che in ogni modo dovessero questi rendersi
obedienti al sudetto superiore, con sottomettersi alla sua disposizione.
Altrimente avrebbe dato il riparo conveniente per il benefizio publico. Ma
recalcitrando detti padri, volendo a viva forza superare la loro opinione a
dispetto del superiore, restarono delusi col loro biasimo, poiché il medemo
comandante diede ordine che tutti e tre sudetti padri per la loro arroganza
partissero disterrati [esiliati, ndr]
per Calabria nell’instante, ritrovandosi la commodità d’imbarcazione per quella
parte. Tanto che se allora s’avesse ritrovato pronta, avrebbe
seguito l’esilio senz’alcuna difficoltà.
Avendo ciò
inteso, li sudetti Padri non lasciarono modo alcuno per sussegare [dissuadere, ndr] l’intenzione del
comandante, interponendo molti mezzi efficaci affinché non partissero da questa
città. Onde il detto signor comandante, alla fine, si fece a sentire che
s’avrebbe sussegato tutte le volte che restasse appagato e sodisfatto il
sudetto Padre Vicario. Che altrimente non potea disponere d’altra formalità. E
per essere detto Padre persona qualificata, si lasciò persuadere che li padri
ottenessero la grazia, con questo però che - per servizio di Dio e benefizio
delli medemi - si dovesse vivere in convento con ogni disciplina salutare a pro
di tutti essi padri e per darsi buon esempio a tutta la città. E necessitò che
il Padre Vicario lui medemo di presenza dovesse intercedere questa grazia.
Sopra che si deve reflettere primariamente l’indiscreto procedere di detti
padri. Inoltre che fu tentato in tempo che solamente dalli religiosi si dovea
attendere coll’orazioni a sedare l’ira di Dio, di più che essi padri oltre
essere d’una religione esemplarissima. Pure il Padre di Scalzo era figlio della
sorella del Padre Vicario. E tutti paesani e parenti congionti.
Il peggio di
questo caso, così indebitamente seguito, fu che li sudetti tre padri e loro
parenti publicamente attestavano che non si dovea stare più sotto l’obedienza
di detto Padre Vicario, per essere scomunicato, per avere conseguito tal
officio d’altro ministro pure scomunicato, per l’interdetto innanzi seguito per
causa della monarchia, siccome s’ha discorso, nonché nel regno per tutta la christianità. Onde se gli secolari in città
s’avessero scandalizzato del procedere così indiscreto delli sudetti padri
cappuccini, essendo in fervore la guerra col pericolo di perdersi la vita, ad
ogni momento si lascia alla considerazione delle persone savie.
25 luglio 1719
Giungono via mare da Napoli militari imperiali diretti a Messina 25 luglio. Vennero
alcune tartane da Napoli cariche di soldatesche tudesche, le quali non
disbarcarono, dovendo condursi, tragittando il Faro di Messina, nel campo qual
si ritrovava sotto detta città di Messina, come si riferiva da molti.
26 luglio 1719
Da Tropea giungono invece tre imbarcazioni cariche
di fascine e militari imperiali 26 luglio. Approdarono in questo porto
tre tartane piene di fanterie tudesche con quantità di fascine condotte da
Tropea.
Civili impossibilitati a recarsi nella Piana
infestata dai malviventi dell’hinterland e non solo. Carestia sempre più
accentuata Proseguiva
nella Piana la desolazione del rimanente delle possessioni, ancorché devastate
dalli Spagnuoli, non puotendo nessun paesano condur[vi]si, essendo tolto il
commercio. Per causa che era infestata da molti villani della Comarca e della
medema Piana, li quali armati rubbavano tutto quello che si ritrovava,
scorrendola di continuo. Il che era di grave detrimento a tutta questa città,
non puotendo gli paesani conseguire alcun sollievo di vettovaglie, nemeno di
erbe. Tanto che si vedevano tutti disperanzati da qualsivoglia agiuto umano. Solo
colla speranza di conseguire minimo refrigerio dal cielo per bontà divina, con
tutto che s’avesse conosciuto aver successo - continuando per tanto tempo -
tanti e tanti patimenti, nonché nell’animo, [pure] nel corpo, col pericolo di
morirsi per la fame. E benché rare volte avessero comparso alcune felughe da
Calabria con alcuni viveri, condotti da quei lazzaroni solo per il guadagno che
conseguivano nella vendita, qual si facea d’uno prezzo molt’esorbitante, non
perciò la città si sfamava. E s’osservò che, continuando l’assedio strettissimo
dalli Spagnuoli, non persistea così grave la carestia come in detto tempo.
Poiché allora almeno si ritrovavano viveri condotti da Napoli e da tutta la
Calabria, benché a carissimo prezzo. Ma doppo si perdette questa commodità,
andando tutte l’imbarcazioni nel campo. E la povera città si vedea perire di necessità,
tanto che sormontò lo prezzo delle farine, solamente nella denominazione di
formento (ssendo realmente meschiate d’altre biade e luppini), ad onze due per
ogni cantaro, quando prima era sopra onza una e tarì quattro, tolti alcuni
giorni dell’assedio sudetto. Peronde il pane venia di malissima qualità e
nemeno fatto condizionato e non cotto. E così piuttosto danneggiava, che apportava sostentamento, servendo solo
per non morirsi senza pane.
Vino adulterato provoca la morte di militari e
civili Di
più si conducea da Calabria certa specie di vino inacquato. E per comparir
colorito si componea con molti o minerali o legni, o altri consimili. Colli
quali si facea rosso. E benché si conoscesse la frode apertamente, per la
residenza [residuo, ndr] che di subito
facea il vino, pure era necessario bensì da tutti, comprandosi con uno prezzo
così caro che sembra stravagante a descriversi. Onde, danneggiati gli corpi
così delli soldati come delli paesani, s’infermavano, correndo un’epidemia di
dissenteria con sangue e di febri maligne e pestilenziali. Conducendo
irrefragabile la morte senza eccettione di persone. Il peggio era che tante
tribulazioni ed afflizioni seguite si vedevano esser derivate per le colpe
commesse, ma non perciò si scorgea scintilla di pentimento. Anzi s’aumentavano
gli peccati e sceleragini, specialmente l’usura, per non dir altro.
27 luglio - 7 agosto 1719
Prosegue la carestia, attenuata in parte grazie ai
viveri (in verità carissimi, di scarsa qualità e persino nocivi) provenienti da
Lipari e dai porti della Calabria. Impossibilità per i civili di recarsi nei
comuni dell’hinterland per procurarsi ortaggi, visto che persisteva il divieto
di transitare nella Piana, ove passavano le truppe spagnole durante i
trasferimenti da Messina a Francavilla e viceversa 27 luglio sino a 7 agosto. Sempre fu
continua la carestia in questa città di qualunque comestibile e di vino,
sostentandosi li cittadini con alcuni viveri venuti da Calabria ed alle volte
da Lipari, ma scarsamente e di malissima qualità. Comprandosi un ovo di gallina
per quattro grani tutte le volte che si puoteva retrovare; il pane di pessima
condizione fatto di farine di favi, luppini, orgio, grano d’India ed altre
biade a grana quattro per onze nove e diece; il vino a grana otto il
quartuccio, composto con mistura di minerali o erbe o radici per rendesi
colorito; alcune biade e legumi di prezzo intolerabile, non nominandosi né
riso, né pasta, né frutti, nemeno erbe, poiché non si compiacevano gli
calabresi condurne. Se comparea alcuna gallina era necessario spendere da dieci
tarì e dodeci per comprarla. Onde concorrevano molte dissenterie per tutti gli cittadini
e soldati colla morte commune.
E di più
persistea l’ambrocco nella città, nonché dalli Spagnuoli che sovente si
facevano a vedere nella Piana, [pure] dalli villani con l’arme in mano,
assassinando publicamente con molti ladrocinij e furbarie per tutto il
territorio. Non puotendo uscire persona alcuna dalla città per osservare almeno
le sue possessioni, benché distrutte e consumate. Tanto più che se alcuno
avesse azzardato conferirsi nella Piana - da dove doppo passare nella Comarca,
ad effetto di procurare alcun vivere pure di cavoli, cepolle ed altri consimili
- nemeno puotea farlo, poiché esisteva la proibizione del signor comandante
della città, il quale non permettea l’uscita da essa città sotto grave pena.
Essendo necessario, per chi pretendeva l’uscita per affari urgentissimi,
ottenere dal medemo signor comandante la
licenza in scriptis, con obligo
inoltre di retornare la sera. Facendosi ciò per causa che ogni giorno, oltre il
concorso nel territorio delli detti villani che rubbavano, seguia il passaggio
di molte soldatesche a cavallo spagnuole che si conducevano da Messina a
Francavilla e da questa all’altra. Proseguendo sempre alcun inconveniente in
pregiudizio delli cittadini e con grave loro danno ed interesse.
Diserzione dal campo di Francavilla di soldati
spagnoli Non
passava giorno che in questa città non avessero venuti soldati spagnuoli cossì
a piedi come di cavallo, desertando dal loro campo in Francavilla. E come
riferivano avrebbe successo il medemo in maggior numero, se non fosse stato per
il timore di non esser arrestato dalli paesani per la strada, tanto per la
speme di conseguir la mercede promessa nella condotta delli desertori dalli
officiali spagnuoli, come per essere tutti li paesani della Comarca molto
affettionati cogli Spagnuoli, specialmente quei delle città del Castro Reale e
suoi casali e di Puzzo di Gotto.
Trasferimento in Calabria di disertori spagnoli non
attendibili
Tutti li desertori spagnuoli che si conferiscono in questa di subito sono
trasferiti nella Calabria con alcune imbarcazioni che per quella parte
passavano. Non dandosi alcuna credenza alle relazioni delli sudetti desertori
per aversi osservato che sempre raccontavano molte bugie.
Si ipotizza attacco austriaco a Messina Da molti giorni
s’hanno inteso infinite cannonate nella città di Messina. Si credette che dalle
nostre truppe tudesche e loro campo s’avesse principiato a battersi li bastioni
e Cittadella, lasciandosi di notarsi l’esito da scrittori che furono presenti
con il fatto della verità.
8 agosto 1719
Transito in prossimità del Capo di navigli spagnoli
carichi di viveri destinati a Messina 8 agosto. Non hanno cessato le galere
spagnuole con alcune felughe di continuo passare sopra questo Capo, viaggiando
da Palermo a Messina colla condotta di vettovaglie per provisione della
Cittadella e di Messina.
L’imperatore Carlo VI risponde ad una missiva
inoltratagli dagli amministratori comunali e dall’arciprete di Milazzo. La
corrispondenza imperiale viene stampata in spagnolo ed in italiano presso
l’editore D’Amico di Messina Avendosi da questi spettabili giurati,
come dal molto reverendo arciprete di questa città, scritto all’Augustissimo
Imperadore in Vienna coll’insinuazione della loro fedeltà e di tutti li
cittadini, colla perdita delli loro effetti e patimenti sofferti nell’Assedio
delli Spagnuoli. Perloché la Cesarea e Catolica Maestà, avendo riguardo
all’integrità di tutto questo publico, si degnò - colla sua sperimentata
clemenza - respondere cossì alli spettabili giurati, come a detto reverendo
arciprete, con lettere piene d’ogni umanissima benignità. Tanto che tutti li
cittadini di questa restarono consolatissimi. Che almeno, tra tante loro
afflizioni patite, si gradea dal nostro monarca cesareo il loro operato in
servizio del Padrone tanto clementissimo. Onde per consuolo commune si
trascrivono le sudette lettere rimesse tanto in lingua spagnola, come furono
dirette, quanto italiana per meglio essere intese. Con tutto che s’avessero
stampate.
La prima,
diretta al molto reverendo arciprete, è della sequente forma, cioè:
«El Rey
Don Diego
Perrone Rector y Parocho de la Ciudad de Melazo en mi Reyno de Sicilia. Con
vuestra carta de treinta del Mayo pasado demostrais y acreditais el amor
vuetro, el del clero y del comun del pueblo a mi Cesarea Real Persona y Augusta
Casa, y acceptando en Mi Real Animo vuestras expresiones con una proporzionada
gratitud, vengo en mandaros manifestar la disposizion Mia a dispensaros y
attenderos succesivamente en todo a quello que fuere de vuestro consuolo de
alivio a todo el clero y de la convenienzia comun, compadeziendo interiormente
a mis fieles subditos en el systema presente por las hostalidades a que la
violenzia de mis enemigos les ha sotopuesto, y contra las quales he mandado
obrar por el uso de mis incontestables derechos, por la indemnidad y por la
libertad de un Reyno, y de unos vasallos que tanto supieron distinguirse en la
fidelidad a los señores Reynes de España mis Gloriosos Predecessores y en el
amor a Mi Augusta Casa, confiando que todos unanimemente continuaran [segue parola di ardua trascrizione, ndr]
distintivos para merecerse en lo sucesivo Mi Cesarea Real Benevolenzia y
Grazias.
De Viena a doze
de Iulio de mil setezientos y diez y nueve.
Io el Rey
Don Ramon de
Vilana Perlas
Il Re
Don Diego
Pirrone, Rettore Paroco della Città di Melazzo nel mio Regno di Sicilia. Con
Vostra carta de’ 30 di maggio passato demostrate et accreditate il vostro
amore, del Clero e del commune del popolo alla mia Cesarea Reale Persona ed
Augusta Casa. Ed accettando nel mio Reale Animo le vostre espressioni con una
proporzionata gratitudine, vengo ad ordinare che vi si manifesti la
disposizione che ho di dispensar ed assistervi successivamente in quanto sarà
di vostra consolazione, di sollievo a tutto il clero. E di vantaggio commune,
compatendo internamente ai fedeli miei sudditi nel sistema presente per le ostilità
a cui gli ha sottoposto la violenza de’ miei nemici, contro li quali ho
ordinato che s’operarasse. Valendomi de’ miei incontrastabili diritti per
l’indennità e libertà di quel Regno e di que’ vassalli, che tanto seppero
distinguersi nella fedeltà verso i Signori Re di Spagna, miei Gloriosi
Predecessori, e nell’amore verso dell’Augusta mia Casa. Confidando che tutti
concordamente saranno per continuare in opere speciali per meritare in appresso
la mia Cesarea Real Benevolenza e Grazia.
Da Vienna, 12
luglio 1719.
Io il Re
Don Raijmondo di
Vigliana Perlas
In Messina nella
Stamperia D’Amico, 1719».
E l’altra
diretta a detti spettabili giurati e della forma sequente, pure redotta in
stampa:
«Exemplar de la Clementissima y Augustisima
letra del Potentisimo nuestro Señor
Don Carlos De
Austria
de este mombre
VI Imperador y terzero Rey de España de las dos Sicilias etc.
Imbiada en
respuesta a la umilissima carta de la siempre Fidelisima y Leal Ciudad de
Melazzo
Sobre escrito de
la carta: A los fieles y amados nuestros
los Iurados de nuestra Fidelisima Ciudad de Melazo en el nuestro Reyno de
Sicilia
El Rey
Fieles y amados nuestros. Las expresiones
con que acreditais en vuestra carta de primero de Iulio pasado vuestro
reconocimiento, fidelidad y amor a mi Cesarea Real Persona y Augusta Casa hallan
en mi Real animo una complida acceptazion y la persuaden a la compassion de
vuestros trabaxos y de las acidentales ruinas, o menoscabos que la violencia de
mis enemigos ha causado a esa Ciudad, a sus naturales, y pueblos, en cuyo conocimiento
vengo en mandaros expresar con la presente mi gratitud en una parte con la
fineza de vuestro fiel proceder, y la disposicion a hazeros experimentar en
opra los efectos de mi Cesarea Real Clemencia, [segue parola di ardua trascrizione, ndr] de a quella distincion con
que corresponde a vuestra lealtad, y que supisteis siempre mereceros en el Real
Animo de los Señores Reyes de España mis Gloriosos Predecesores, y specialmente
en el del Señor Rey Don Carlos Segundo mi Zio, cuyas maximas de Iusticia y de Piedad
son el objeto primario de mis Paternales deseos dirigidos a imitarle en ella
como immediato successor suyo, porche mis vassallos tengan en tan agradable
memoria continuado el efecto de la prosperidad, de el consuelo, y de la
satisfacion comun.
De Vienna a 29
de agosto del 1719
Yo el Rey
Don Ramon de
Villana Perlas.
Copia della Clementissima lettera dell’Augustissimo
e Potentissimo Nostro Signore
Don Carlo di
Austria
di questo nome
VI Imperatore e Terzo Re delle Spagne, delle due Sicilie etc.
Fatta in
risposta della umilissima carta della sempre Fedelissima e Leale Città di Melazzo
Soprascritto
della lettera: Alli fedeli ed amati
nostri Giurati della nostra Fedelissima città di Melazzo nel nostro Regno di
Sicilia
Il Re
Fedeli ed amati
nostri. L’espressioni con le quali accreditate nella vostra lettera del primo
di luglio passado la vostra recognizione, fedeltà ed amore alla mia Cesarea
Real Persona ed Augusta Casa trovano nel mio Regio animo una compita
accettazione e lo muovono a compassione de’ vostri travagli e delle fortuite
rovine o detrimenti che la violenza delli miei nemici ha causato a cotesta città,
alli suoi naturali e popoli. In riconoscimento di che vengo ad espressarvi con
la presente la mia gratitudine, in una parte per la finezza del vostro fedele
procedimento e la mia inclinazione a farvi sperimentare, in altra, l’effetti
della mia Cesarea Real Clemenza, con quella distinzione che corrisponde alla
vostra fedeltà. Con la quale sapeste sempre meritarvi nel Regio animo delli
Signori Re di Spagna miei Gloriosi Antecessori, e particolarmente in quello del
Signor Re Don Carlo II mio zio, le di cui massime di Giustizia e di Pietà sono
il principale oggetto delli miei Paterni desiderij, drizzati ad imitarlo in
quella, come suo immediato successore. Acciocché li miei vassalli abbiano in sì
gradita memoria il continuato effetto della prosperità, del sollievo e della
commune contentezza.
Da Vienna a 29
agosto 1719
Io il Re
D. Ramon de
Villana Perlas
Stampate nella
Regia Stamperia D’Amico con licenza de’Superiori» [Nota a margine, ndr: Solamente potei conseguire copia della
lettera stampata alli signori giurati].
9 agosto 1719
Costantino Pinto, nato a Milazzo e figlio d’un
soldato spagnolo, racconta alcuni particolari del suo viaggio da Messina
effettuato col capitano spagnolo presso cui prestava servizio, riferendo che le
truppe imperiali avevano conquistato Messina 9 agosto. In questo giorno venne
in questa città Costantino Pinto, nativo in essa, figlio d’un soldato spagnuolo
residente in questo Castello in tempo che dominava il Re di Spagna nel Regno.
Il quale di Pinto da più tempo si ritrovava nella città di Messina a’ servizij
d’un capitano spagnolo. Condotto innanzi il comandante di questa, riferì che sino
a quel tempo dominavano gli Spagnoli in quella città e che sudetto capitano si
partì unitamente col sacerdote Don Tomaso Terranova da essa città. Il quale
pure era restato nella Piana di questa dal principio dell’ambrocco delli
Spagnoli. E pervenuti tutti sino alla Marina di Spadafora, ove il sudetto
sacerdote di Terranova si conferì nella terra della Rocca per vedere al Signor
Ottavio Terranova, suo fratello, in quella terra retirato[si] doppo la partenza
delli Spagnuoli per non avere casa per abitare in questa, essendoli la sua
stata dirupata per legna. Ed il sudetto capitano proseguì il viaggio sino nella
città di Puzzo di Gotto con esso di Pinto. Con tutto che commorando in quella
città, questi se n’avesse fuggito e retiratosi in questa città. Riferì pure che
detto capitano per la strada sempre caminò con molto spavento, temendo che non
fosse sorpreso dalle truppe tudesche. Ed inoltre che il signor generale Spinola
s’abbia retirato nella Cittadella con le truppe e soldatesche spagnuole. Che il
bastione Gonzaga stava per cadere colla resa alli Tudeschi e che la casa di
Messina fu molto vessata con bombe dalli Tudeschi. Tanto che fu necessario
retirarsi gli Spagnuoli coll’entrata dell’armee cesaree. Il che si descriverà
da molti scrittori che in quella si ritrovavano.
10-14 agosto 1719
Gli Spagnoli sconfitti si ritirano a Messina nella
Cittadella e nella fortezza del Salvatore 10 agosto sino a 14 detto. Sussequentemente
si publicò bando in questa che nella città di Messina entrarono li Tedeschi con
aversi reso tutti gli bastioni. E che realmente gli Spagnuoli s’abbiano
retirato nella Cittadella e nel Castello del Salvadore. E che si prattica [segue lacuna nella copia, ndr] di dette
fortezze. Bensì abbiano seguito molte batterie d’una parte e l’altra coll’uccisione
di migliara di Tedeschi e pure di Spagnuoli.
15 agosto 1719
Torna da Messina il parroco di contrada S. Marina don
Giovanni Pisano, imprigionato da oltre un mese nelle prigioni spagnole 15 agosto.
Venne da Messina il sacerdote Don Giovanni Pisano per mare con feluga del
Padron Gaetano XXmiglia [Ventimiglia,
ndr], tutti di questa città. Il quale sacerdote da giorni quaranta che si
ritrovava carcerato nel palazzo di essa città per essere stato preso nel casale
di Santa Marina d’alcune truppe spagnuole e da quelle condotto in detta città
prigioniero. Ed in dette carceri molto soffrì, ma resa la città all’arme
cesaree, in tempo che il sudetto sacerdote di Pisano stava per componersi ad
effetto di conseguire la libertà dalli Spagnuoli, di subbito fu scarcerato.
Raccontò, fra l’altri patimenti che li parvero più sensibili ed atroci, intese
che nella presa che seguì d’esso sacerdote in detto casale fu con molta
violenza legato dalli villani pure della Piana, li quali erano suoi conoscenti
e sotto la sua Parocchia, per avere stato il sudetto sacerdote di Pisano per
molt’anni continuati, come infatti si ritrovava quando fu preso, paroco di
detto casale. Specialmente da [segue
lacuna nella copia, ndr] Scibilia e [segue
lacuna nella copia, ndr] Mazzù, con averlo questi condotto così stretto
sino in Messina. E questo tratto usato al sudetto li sembrò molto insoffribile.
16 agosto 1719
La Piana in mano ai malviventi dell’hintelrland al
seguito delle truppe spagnole 16 agosto. Dal tempo che partì tutto
l’esercito tudesco in traccia delli Spagnuoli sino a Francavilla (come si
disse), per tutto sudetto mese la città si retrovava stretta, non potendo gli
cittadini uscire nella Piana per osservare le loro disfatte possessioni, per
esser continuamente piena non solo di ladroni villani della Comarca, pure di
molte truppe spagnuole, quali tutte assassinavano quello ritrovavano. E benché
alcun cittadino o plebeo avesse arrischiato uscire in detta Piana per loro
negozij o per provecciarsi d’alcun vivere, stante la scarsezza che si ritrovava
in città e col permesso in scriptis del signor comandante della Piazza, pure si
trasferia con molto spavento per non restar prigioniero (con tutto che dovea
retornare la sera) di dette truppe spagnuole accompagnate da detti villani
prattici in tutta detta Piana e Comarca. La quale era alla devozione di detti
Spagnuoli, anzi molto con quelli affezionata, avendosi pure promulgato che
sudetti villani uniti con le truppe nemiche aveano ordine espresso dagli loro
comandanti, retrovandosi sempre alcuno o nella città di Santa Lucia o in quella
di Puzzo di Gotto o nel casale di Barsalona o nella città del Castro Reale o in
altra parte convicina.
Penuria di viveri in città ed adulterazioni
alimentari
Perloché tutti gli cittadini erano non solo afflitti per la perdita di tutti li
loro beni, pure per ritrovarsi con molta penuria e scarsezza d’ogni
vittovaglia. Compandosi strettamente con alcuni pochi viveri che di rado erano
condotti da Calabria ed alle volte con alcuna feluga da Lipari. Li quali in
nessun modo erano sufficienti per cibarsi gli poveri paesani. Magiormente che
gli officiali tudeschi volevano essere loro li primi provisti nella compra di
detti viveri, conseguendo gli cittadini il remanente, benché fetido, refiutato
dalli sudetti officiali. Tanto che il pane ad onze dodeci, composto di farine
meschiate di luppini, orgio ed altri, di più mal condizionato e non cotto per
crescere il peso, per grana quattro. Oltreché dette farine puzzavano, onde si
può considerare di che condizione riusciva detto pane. Il vino conzato con sandali
[tagliato, miscelato con polveri
coloranti, ndr] ed altri. Il che oculatamente si scorgea nell’odore, colore
e sapore, puotendosi bevere solamente la metà. Restando l’altra nel vaso tutta
sporca e piena della composizione fraposta per rendersi colorita e rossa, a
grana otto il quartuccio. Oltre che non si puoteva bevere con alcuna ancorché
menoma porzione d’acqua. La carne, benché si facesse credere per necessità di
crasto con mille spergiuri dalli venditori, quando peraltro era di craponi, e
quella di bove di quelli del presepe, tutte le volte che si puoteva con mille
preci aversi, si comprava a tarì uno e più grana il rotolo. Almeno s’avessero
venduti tutti sudetti viveri col peso giusto. La neve pria si vendeva a grana
diece il rotolo, doppo a grana sei. Con tutto che fosse stata piena d’acqua e
non bene infossata, ma venuta da Calabria, raccolta in alcuni appendici e non
conservata in fosse. Tanto che nell’instante che si comprava di subbito si
liquefacea. E di più non era continua. Inoltre in nessun modo si ritrovava
alcun frutto né secco, né fresco, né legumi, né riso, né pasta, né erbe di
qualunque sorte. Insomma la città era molto affamata. Basta a dirsi che una
cipolla infracidita tutte le volte che s’avesse ritrovato si vendeva a grano
uno per ognuna. Un ovo nemeno si ritrovava per grana quattro, una gallina per
gli ammalati non si puoteva avere per tarì dodeci in quattordici. E benché dal
principio d’agosto avessero continuato caldi eccessivi ed intolerabili,
nondimeno per bontà divina, con tutto che corressero febri maligne e quasi
pestilenziali tra gli abitanti paesani, specialmente con dissenteria e febri
lentissime, non fu la mortalità notabile, ma una convalescenza molto lunga.
Alta mortalità tra le truppe imperiali, prima
sensibili nei confronti della popolazione, ben presto divenute prepotenti E nelli soldati
tudeschi, al contrario delli cittadini, o per mancanza di medicamenti o per
puoca cura, o per ritrovarsi gl’infermi in luoghi non aperti né purificati,
giornalmente tra essi la morte trionfava, vedendosi perire ogni giorno più di
venti, anzi più. Perloché, scorgendosi e le necessità del vitto e l’altre
congetture che ogni dì si vedevano, facilmente si possano reflettere l’angustie
d’un publico affanno. Pure da quei che furono assenti, con tutto che sudetti
patimenti sembrassero incredibili.
In quei tempi
così calamitosi, avendosi considerazione a’ tanti travagli dalli cittadini
sofferti per il passato, come a quelli che di continuo attualmente si
provavano, dalli officiali tudeschi s’avea alcuna compassione, stimandosi gli
naturali con qualche equità. Specialmente dal signor comandante della Piazza,
con ingerirsi questi che li cittadini non fossero vessati dalle truppe, mentre
detto signor comandante per sua speciale bontà esercitava il suo governo con
ogn’attenzione, volendo che gli soldati e loro officiali non s’ingerissero
cogli abitatori. E, tutti invigilando al servizio della Maestà sua Cesarea e
Catolica, si vivea almeno tra tant’afflizioni con questo sollievo, dispiacendo
alli cittadini che non intendevano l’idioma alemano, per aver maggior campo
d’accomunarsi con la nazione tudesca. Bensì molti di essi, parlando in lingua
italiana, specialmente gli officiali, si facevano intendere dalli cittadini e
communemente tra loro si discorrea con ogni tranquillità. Ed avesse piaciuto
alla Maestà Divina che avesse sempre proseguito la piacevolezza commune. Ma fu
breve tal consolazione. Poiché gli soldati col tempo si fecero molto insolenti,
per non dir altro.
Militari spagnoli disertano dalla cavalleria
spagnola
Continuamente e da più giorni venivano in questa città molti desertori
spagnuoli, particolarmente soldati di cavallo, con fuggirsene dal loro campo e
d’altre parti della Comarca. E sotto li 15 di detto mese agosto vennero uniti
quattordici di essi, con aversi venduto gli cavalli di baratto. E solamente
riferirono che il viceré spagnuolo, il marchese di Lede, s’abbia fortificato
con tutte le sue truppe in Francavilla con molte trinciere e ripari, aspettando
dal loro Re gli aiuti necessarij. Ed altre dicerie a favore della loro nazione.
Onde, per non darsi campo di parlare con bugie, nell’instante si procurava
l’imbarco per Calabria, gradito nonché da essi, [pure] dall’officiali tudeschi
che governavano nella città. Poiché alcuni di detti desertori erano tanto
pronti nel parlare senz’alcun timore che, celibrandosi [parola di dubbia trascrizione, ndr] gli spagnoli, alle volte si
rendevano stomachevoli a chi l’intendea.
17 agosto 1719
Malviventi dell’hinterland attaccano alcuni
pescatori in prossimità della Tonnara di Milazzo 17 agosto.
Alcuni villani di questa Comarca, fatti molto insolenti, ardirono venire sino
alla Marina vicino la Tonnara di Melazzo, con aver disparato quantità di
scopettate ad alcuni poveri marinari, li quali s’aveano condotto in quello
scaro colle sue [loro, ndr] barche
per pescare. E con tutto che fossero questi stati assediati con molte palle di
schioppi nelle loro barche, nondimeno restarono senz’offesa alcuna, retirandosi
con ogni sollecitudine in questo porto.
Dal che si può
considerare l’alterigia bestiale di detti villani, li quali non avendo avuto
alcun riguardo - che in questa città e fuori di essa assistevano molte truppe
di cavalleria a pochi passi lontani da detta Tonnara - pure con molta
presunzione azzardarono assaltare detti marinari per farli prigionieri o per
assassinarli, togliendoli dette barche.
Gugliemo Colonna nominato giudice del Tribunale
della Gran Corte
Avendo partito tutto l’esercito tudesco da questa città nella traccia delli
Spagnuoli sino a Francavilla, pure marciò il dottor Don Guglielmo Colonna col
carico di commissario generale per la Comarca, conferitoli tal carica dal
generale Mercij, generale comandante di tutto sudetto campo (come si scrisse).
In questo giorno s’ebbe relazione che, conferitosi con l’esercito nella città di
Messina, avesse conseguito l’offizio di giudice del Tribunale della Regia Gran Corte
e che avrebbe [avuto] altri posti magiori col tempo.
18 agosto 1719
Gigantesco incendio nella Piana, causato da alcune
unità di cavalleria spagnola che appiccano il fuoco nel proprio ex
accampamento, da contrada Casazza sino al Parco18 agosto. In
questo giorno, ben mattino, si fece a vedere nella Piana, vicino le porte della
città, pochi passi nella contrata di San Giovanni, una truppa di cavalleria
spagnola. Perloché dalla città si dispararono due tiri di cannoni per fugare
alli detti spagnuoli. Anzi, d’ordine del signor comandante della Piazza,
uscirono alcune truppe tudesche per discacciare gli nemici, li quali furono
forzati retirarsi assieme con molti villani che con essi s’aveano uniti. Bensì
diedero fuoco a tutto il campo, ove prima del loro svergognato retiramento si
ritrovavano accampati li sudetti spagnuoli. E s’osservò dalla città l’incendio,
il quale per essere molto spazioso - per aversi dato fuoco dal principio sino
al fine di detto campo per lo spazio continuato di due miglia - si credea
infallibilmente che, dilatandosi per le parti convicine, avrebbe incendiato
dell’intutto la Piana. Magiormente che sin allora si ritrovava sudetto campo
ripieno di più migliara cantara di legna, fascine e canne secche. Ma per la
grazia del sommo Dio e per intercessione