lunedì 26 marzo 2018

 



Capitolo XVI

 

(trascrizione a cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)

 

15-24 luglio 1719

La carestia affligge la città. I pochi viveri disponibili, di pessima qualità, venduti a prezzi esorbitanti. Impossibilità di rifornirsi nella Piana ancora controllata dagli Spagnoli 15 luglio sino al 24. Da detto giorno sino al 24 del sudetto mese la città ha patito una carestia così grande, così di pane come d’ogni vettovaglia, che era un cruccio intollerabile. Tanto che non si può esplicare. La cagione era derivata per non aver in detto tempo venuto alcuna imbarcazione né da Napoli, né da Calabria con alcuna sorte di viveri, come per il passato intercalatamente solevano comparire. E benché avessero venuto alcune felughe, queste nell’istante erano deputate [assegnate, ndr] per il campo nella Marina di Tavormina. Perloché oltre la scarsezza, desiderandosi con molt’ansietà pure qualunque cosa di puoco rilievo, si vendea quella poca vettovaglia riguardata con molta cauzione a prezzo cossì esorbitantissimo che sembrava un paradosso molto stravagante, avendo dell’incredibile. Almeno quello che si vendeva fosse stato di mediocre qualità e non fetido e puzzolente… Infine si vendette carne salata di cavallo venuta da Calabria a tarì uno e grana dicidotto almeno per ogni rotolo. Onde l’afflizione nella città era comune, senz’eccettione di qualità di persone. Poiché se le facoltose tenevano qualche puoco di farine riserbate da più tempo, ancorché framezzate di molte biade e luppini, non perciò si puotevano sostentare col solo pane. Del che si può congetturare come se la passavano l’altre, specialmente le povere, per certo che recava una compassione molto lagrimevole.

Inoltre per essere tolto il commercio per tutta questa Comarca (dalla quale si sperava alcun sollievo almeno di cacciagione, galline, ova, olive, fogliami ed altri) non puotendosi uscire dalli cittadini nella Piana - ritrovandosi questa non solamente scorsa ogni giorno con corriere d’alcune truppe di Spagnuoli a cavallo, pure da molti villani armati della medema comarca, li quali tutti svelatamente rubbavano tutto quello che ritrovavano (e non potendo far altro, carichi di legna ed altri consimili) - la povera città dell’intutto si ritrovava disperanzata a manutenersi solo per non morire di fame. E con tutte le sudette turbolenze ed angustie non poteasi dar riparo, non avendo ove ricorrere per viveri. E nemeno di scacciare li Spagnuoli per non esserci in città quella quantità di truppe tudesche, né a piedi, né a cavallo, proporzionate per togliersi l’ambrocco sudetto, per essere molto puoche. Il che oculatamente s’osservava. Onde si ricorrea alla clemenza del nostro Dio per ritrovarsi col suo aiuto celeste la providenza necessaria, essendo ogn’umano disperanzato. E con tutto ciò la malvagità d’alcuni sormontava in eccesso.

 

Continuano le diserzioni dalle truppe spagnole, benché scoraggiate dal provvedimento che remunerava le collaborazione dei cittadini Si disse che tutta l’armata tudesca fosse accampata vicino la città di Messina per conquistarla. Come pure che in Francavilla si ritrovassero cossì truppe spagnuole, come soldatesche tudesche. Con molt’altre dicerie. E benché in questo tempo avessero venuto più e più disertori spagnuoli in questa città, così a cavallo come a piedi (ed un giorno un fante unitamente colla moglie, caminando solamente la notte), non perciò si puotea penetrare la verità con ogni schiettezza. Dicono li desertori che molti soldati spagnuoli avrebbero lasciato il loro esercito prendendo la fuga. Ma il timore di non esser arrestati per la strada dalli paesani, coll’ingordigia della mercede promessa dalli comandanti spagnuoli, l’ha trattenuti.
 
 
 
Plan des retranchements des esp[agnols] et des allemands devant Milazzo, 1719
(Biblioteque National del France)
[http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b530425219.r=melazzo?rk=536483;2]
 

Trasporti via mare di viveri destinati a Messina - a cura degli Spagnoli - riescono ad aggirare il “blocco” militare imposto dalle truppe imperiali e dalle navi britanniche allo scopo di affamare la città dello Stretto. Sparati due colpi di cannone dal bastione delle Isole allo scopo di segnalare alle navi britanniche il transito di uno di questi navigli S’ha riferito publicamente che nella città di Messina pure si stava in molta scarsezza di viveri e che fosse stata ambroccata da tutto l’esercito tudesco, tanto per mare dalle navi inglesi, come per terra dalle truppe. Bensì furtivamente le galere di Spagna, con alcune felughe, conducono da Palermo alcuni viveri, osservandosi di continuo allorché passano per questo Capo. Ed entrando in quella città di nottetempo, per non essere discoperte da dette navi ed altri vascelli, li quali stanno nel Faro per togliergli ogni soccorso di viveri e vettovaglie. E sotto li 21 di detto mese, ad ore due di notte, furono sopra detto Capo tre galere Spagnuole con alcune felughe. Perloché dal bastione della Porta dell’Isola, nella Cittadella di questa, li furono disparati due tiri di cannone, colli quali si volsero far avvisate le navi inglesi per esser vigilanti nel passaggio dovevano fare dette galere nemiche per il Faro di Messina. Bensì doppo furono poste di guardia quattro galere di Napoli con due navi inglesi vicino detto Faro, nello Scaro delli Mortilli [Mortelle, ndr], per impedire detto passaggio. E con tutto ciò non si puoté togliere la comunicazione tenuta da detta città con tutta questa Comarca per terra, dalla quale - come parziale delli Spagnuoli - si conducevano molti e diversi generi di viveri dalli villani, e di giorno e di notte, senz’ostacolo alcuno. Per esser libero il tragitto per le montagne tanto per la vicinanza, quanto per non ritrovarsi dalla parte di Levante l’ambrocco sudetto dalle truppe tudesche.

 

24 luglio 1719

Ancora riflessioni sull’Assedio come castigo divino. Nel convento dei Cappuccini tre religiosi decidono di trasferirsi al Capo - contro la volontà del superiore - a causa della penuria d’acqua e della presenza di militari infermi. Il padre vicario, ossia il loro superiore, ricorre al comandante della Piazza per costringerli a tornare in convento 24 luglio. Con tutto che in questa città s’avessero apertamente osservato le gravissime afflizioni ed angustie delli cittadini in generale, particolarmente per la scarsezza di qualsivoglia vettovaglia. E che S. D. M. [verisimilmente Sommo Dio Massimo, ndr] esercitando - per le gravi enormitadi commesse - la sua giustizia. Non perciò si scorgea minima ombra d’emendazione, anzi s’aumentavano gli misfatti, quando peraltro in tempi così calamitosi si dovea procurare con ogni esemplarità l’emendazione per placarsi un Dio sdegnato giustamente. Ed il peggio fu che se gli secolari come persone più libere non badavano trattenersi negli limiti del dovere, anzi raffrenare le loro volontà dal compiacimento delli sensi, almeno s’avesse osservato alcun trattenimento nelli religiosi. Ma il tutto correa alla peggio. Ed in questo giorno. Tralasciandosi molti e molti altri casi seguiti e consimili, e peggiori, per non puotersi descrivere, essendo molto pregiudiziali alla vita monastica.

Successero alcuni disgusti tra il Padre Fra Serafino Cambria di Melazzo, Vicario in capite nel convento de’ Padri Cappuccini in questa città, e li padri Fra Illuminato Gioleonardo, Fra Giovanni Maria Cambria e Fra Cherubino Scalzo, pure Cappuccini di questa città. Pretendendo questi sudditi uscirsene dal convento e retirarsi nel Capo per alcuni giorni, con il pretesto non esservi in detto convento acqua ed in esso commorare aquartierati molt’infermi soldati tudeschi. Ed oppugnando il padre vicario coll’asserzione giustificata che in nessun modo dovea lasciarsi in abbandono il convento, tanto per custodia d’esso in tempo che persistea la guerra, magiormente che si ritrovava pieno di molte truppe. Oltreché era vuopo attendersi con ogni fervore al culto divino e non lasciarsi l’esercizij spirituali colla frequentazione delli orazioni, e per placarsi Dio, e per darsi esemplarità alli secolari. Coll’assistenza nella chiesa, giornalmente piena da molti devoti. E con molti raccordi profittevoli per dissuadere alli sudetti padri dalla pretesa partenza, non fu possibile questi placarsi. Anzi, con molta arroganza processero all’insolenze per non dir violenze, volendo superare l’attentato. Perloché - vedendosi detto padre vicario molto ed indiscretamente vilipeso dalli sudetti Padri, non avendo riguardo dover soggiacere alla volontà del superiore coll’obedienza, tanto celebrata nelle religioni, colla quale si conserva con ogni decoro la regola monastica - per non esser sottoposto a magiori indiscretezze delli detti padri, fu forzato ricorrere al signor comandante della Piazza per sedare questi inconvenienti. Onde il sudetto signor coronello - avendosi informato dagli altri padri e fratelli del convento e restando sodisfatto così della richiesta del superiore, come dell’indiscretezza delli sudetti sudditi, spalleggiati da molti loro congionti - ordinò che in ogni modo dovessero questi rendersi obedienti al sudetto superiore, con sottomettersi alla sua disposizione. Altrimente avrebbe dato il riparo conveniente per il benefizio publico. Ma recalcitrando detti padri, volendo a viva forza superare la loro opinione a dispetto del superiore, restarono delusi col loro biasimo, poiché il medemo comandante diede ordine che tutti e tre sudetti padri per la loro arroganza partissero disterrati [esiliati, ndr] per Calabria nell’instante, ritrovandosi la commodità d’imbarcazione per quella parte. Tanto che se allora s’avesse ritrovato pronta, avrebbe seguito l’esilio senz’alcuna difficoltà.

Avendo ciò inteso, li sudetti Padri non lasciarono modo alcuno per sussegare [dissuadere, ndr] l’intenzione del comandante, interponendo molti mezzi efficaci affinché non partissero da questa città. Onde il detto signor comandante, alla fine, si fece a sentire che s’avrebbe sussegato tutte le volte che restasse appagato e sodisfatto il sudetto Padre Vicario. Che altrimente non potea disponere d’altra formalità. E per essere detto Padre persona qualificata, si lasciò persuadere che li padri ottenessero la grazia, con questo però che - per servizio di Dio e benefizio delli medemi - si dovesse vivere in convento con ogni disciplina salutare a pro di tutti essi padri e per darsi buon esempio a tutta la città. E necessitò che il Padre Vicario lui medemo di presenza dovesse intercedere questa grazia. Sopra che si deve reflettere primariamente l’indiscreto procedere di detti padri. Inoltre che fu tentato in tempo che solamente dalli religiosi si dovea attendere coll’orazioni a sedare l’ira di Dio, di più che essi padri oltre essere d’una religione esemplarissima. Pure il Padre di Scalzo era figlio della sorella del Padre Vicario. E tutti paesani e parenti congionti.

Il peggio di questo caso, così indebitamente seguito, fu che li sudetti tre padri e loro parenti publicamente attestavano che non si dovea stare più sotto l’obedienza di detto Padre Vicario, per essere scomunicato, per avere conseguito tal officio d’altro ministro pure scomunicato, per l’interdetto innanzi seguito per causa della monarchia, siccome s’ha discorso, nonché nel regno per tutta la christianità. Onde se gli secolari in città s’avessero scandalizzato del procedere così indiscreto delli sudetti padri cappuccini, essendo in fervore la guerra col pericolo di perdersi la vita, ad ogni momento si lascia alla considerazione delle persone savie.

 

25 luglio 1719

Giungono via mare da Napoli militari imperiali diretti a Messina 25 luglio. Vennero alcune tartane da Napoli cariche di soldatesche tudesche, le quali non disbarcarono, dovendo condursi, tragittando il Faro di Messina, nel campo qual si ritrovava sotto detta città di Messina, come si riferiva da molti.

 

26 luglio 1719

Da Tropea giungono invece tre imbarcazioni cariche di fascine e militari imperiali 26 luglio. Approdarono in questo porto tre tartane piene di fanterie tudesche con quantità di fascine condotte da Tropea.

 

Civili impossibilitati a recarsi nella Piana infestata dai malviventi dell’hinterland e non solo. Carestia sempre più accentuata Proseguiva nella Piana la desolazione del rimanente delle possessioni, ancorché devastate dalli Spagnuoli, non puotendo nessun paesano condur[vi]si, essendo tolto il commercio. Per causa che era infestata da molti villani della Comarca e della medema Piana, li quali armati rubbavano tutto quello che si ritrovava, scorrendola di continuo. Il che era di grave detrimento a tutta questa città, non puotendo gli paesani conseguire alcun sollievo di vettovaglie, nemeno di erbe. Tanto che si vedevano tutti disperanzati da qualsivoglia agiuto umano. Solo colla speranza di conseguire minimo refrigerio dal cielo per bontà divina, con tutto che s’avesse conosciuto aver successo - continuando per tanto tempo - tanti e tanti patimenti, nonché nell’animo, [pure] nel corpo, col pericolo di morirsi per la fame. E benché rare volte avessero comparso alcune felughe da Calabria con alcuni viveri, condotti da quei lazzaroni solo per il guadagno che conseguivano nella vendita, qual si facea d’uno prezzo molt’esorbitante, non perciò la città si sfamava. E s’osservò che, continuando l’assedio strettissimo dalli Spagnuoli, non persistea così grave la carestia come in detto tempo. Poiché allora almeno si ritrovavano viveri condotti da Napoli e da tutta la Calabria, benché a carissimo prezzo. Ma doppo si perdette questa commodità, andando tutte l’imbarcazioni nel campo. E la povera città si vedea perire di necessità, tanto che sormontò lo prezzo delle farine, solamente nella denominazione di formento (ssendo realmente meschiate d’altre biade e luppini), ad onze due per ogni cantaro, quando prima era sopra onza una e tarì quattro, tolti alcuni giorni dell’assedio sudetto. Peronde il pane venia di malissima qualità e nemeno fatto condizionato e non cotto. E così piuttosto danneggiava, che apportava sostentamento, servendo solo per non morirsi senza pane.

 

Vino adulterato provoca la morte di militari e civili Di più si conducea da Calabria certa specie di vino inacquato. E per comparir colorito si componea con molti o minerali o legni, o altri consimili. Colli quali si facea rosso. E benché si conoscesse la frode apertamente, per la residenza [residuo, ndr] che di subito facea il vino, pure era necessario bensì da tutti, comprandosi con uno prezzo così caro che sembra stravagante a descriversi. Onde, danneggiati gli corpi così delli soldati come delli paesani, s’infermavano, correndo un’epidemia di dissenteria con sangue e di febri maligne e pestilenziali. Conducendo irrefragabile la morte senza eccettione di persone. Il peggio era che tante tribulazioni ed afflizioni seguite si vedevano esser derivate per le colpe commesse, ma non perciò si scorgea scintilla di pentimento. Anzi s’aumentavano gli peccati e sceleragini, specialmente l’usura, per non dir altro.

 

27 luglio - 7 agosto 1719

Prosegue la carestia, attenuata in parte grazie ai viveri (in verità carissimi, di scarsa qualità e persino nocivi) provenienti da Lipari e dai porti della Calabria. Impossibilità per i civili di recarsi nei comuni dell’hinterland per procurarsi ortaggi, visto che persisteva il divieto di transitare nella Piana, ove passavano le truppe spagnole durante i trasferimenti da Messina a Francavilla e viceversa  27 luglio sino a 7 agosto. Sempre fu continua la carestia in questa città di qualunque comestibile e di vino, sostentandosi li cittadini con alcuni viveri venuti da Calabria ed alle volte da Lipari, ma scarsamente e di malissima qualità. Comprandosi un ovo di gallina per quattro grani tutte le volte che si puoteva retrovare; il pane di pessima condizione fatto di farine di favi, luppini, orgio, grano d’India ed altre biade a grana quattro per onze nove e diece; il vino a grana otto il quartuccio, composto con mistura di minerali o erbe o radici per rendesi colorito; alcune biade e legumi di prezzo intolerabile, non nominandosi né riso, né pasta, né frutti, nemeno erbe, poiché non si compiacevano gli calabresi condurne. Se comparea alcuna gallina era necessario spendere da dieci tarì e dodeci per comprarla. Onde concorrevano molte dissenterie per tutti gli cittadini e soldati colla morte commune.

E di più persistea l’ambrocco nella città, nonché dalli Spagnuoli che sovente si facevano a vedere nella Piana, [pure] dalli villani con l’arme in mano, assassinando publicamente con molti ladrocinij e furbarie per tutto il territorio. Non puotendo uscire persona alcuna dalla città per osservare almeno le sue possessioni, benché distrutte e consumate. Tanto più che se alcuno avesse azzardato conferirsi nella Piana - da dove doppo passare nella Comarca, ad effetto di procurare alcun vivere pure di cavoli, cepolle ed altri consimili - nemeno puotea farlo, poiché esisteva la proibizione del signor comandante della città, il quale non permettea l’uscita da essa città sotto grave pena. Essendo necessario, per chi pretendeva l’uscita per affari urgentissimi, ottenere dal  medemo signor comandante la licenza in scriptis, con obligo inoltre di retornare la sera. Facendosi ciò per causa che ogni giorno, oltre il concorso nel territorio delli detti villani che rubbavano, seguia il passaggio di molte soldatesche a cavallo spagnuole che si conducevano da Messina a Francavilla e da questa all’altra. Proseguendo sempre alcun inconveniente in pregiudizio delli cittadini e con grave loro danno ed interesse.

 

Diserzione dal campo di Francavilla di soldati spagnoli Non passava giorno che in questa città non avessero venuti soldati spagnuoli cossì a piedi come di cavallo, desertando dal loro campo in Francavilla. E come riferivano avrebbe successo il medemo in maggior numero, se non fosse stato per il timore di non esser arrestato dalli paesani per la strada, tanto per la speme di conseguir la mercede promessa nella condotta delli desertori dalli officiali spagnuoli, come per essere tutti li paesani della Comarca molto affettionati cogli Spagnuoli, specialmente quei delle città del Castro Reale e suoi casali e di Puzzo di Gotto.

 

Trasferimento in Calabria di disertori spagnoli non attendibili Tutti li desertori spagnuoli che si conferiscono in questa di subito sono trasferiti nella Calabria con alcune imbarcazioni che per quella parte passavano. Non dandosi alcuna credenza alle relazioni delli sudetti desertori per aversi osservato che sempre raccontavano molte bugie.

 

Si ipotizza attacco austriaco a Messina Da molti giorni s’hanno inteso infinite cannonate nella città di Messina. Si credette che dalle nostre truppe tudesche e loro campo s’avesse principiato a battersi li bastioni e Cittadella, lasciandosi di notarsi l’esito da scrittori che furono presenti con il fatto della verità.

 

8 agosto 1719

Transito in prossimità del Capo di navigli spagnoli carichi di viveri destinati a Messina 8 agosto. Non hanno cessato le galere spagnuole con alcune felughe di continuo passare sopra questo Capo, viaggiando da Palermo a Messina colla condotta di vettovaglie per provisione della Cittadella e di Messina.

 

L’imperatore Carlo VI risponde ad una missiva inoltratagli dagli amministratori comunali e dall’arciprete di Milazzo. La corrispondenza imperiale viene stampata in spagnolo ed in italiano presso l’editore D’Amico di Messina Avendosi da questi spettabili giurati, come dal molto reverendo arciprete di questa città, scritto all’Augustissimo Imperadore in Vienna coll’insinuazione della loro fedeltà e di tutti li cittadini, colla perdita delli loro effetti e patimenti sofferti nell’Assedio delli Spagnuoli. Perloché la Cesarea e Catolica Maestà, avendo riguardo all’integrità di tutto questo publico, si degnò - colla sua sperimentata clemenza - respondere cossì alli spettabili giurati, come a detto reverendo arciprete, con lettere piene d’ogni umanissima benignità. Tanto che tutti li cittadini di questa restarono consolatissimi. Che almeno, tra tante loro afflizioni patite, si gradea dal nostro monarca cesareo il loro operato in servizio del Padrone tanto clementissimo. Onde per consuolo commune si trascrivono le sudette lettere rimesse tanto in lingua spagnola, come furono dirette, quanto italiana per meglio essere intese. Con tutto che s’avessero stampate.

La prima, diretta al molto reverendo arciprete, è della sequente forma, cioè:

 

«El Rey

Don Diego Perrone Rector y Parocho de la Ciudad de Melazo en mi Reyno de Sicilia. Con vuestra carta de treinta del Mayo pasado demostrais y acreditais el amor vuetro, el del clero y del comun del pueblo a mi Cesarea Real Persona y Augusta Casa, y acceptando en Mi Real Animo vuestras expresiones con una proporzionada gratitud, vengo en mandaros manifestar la disposizion Mia a dispensaros y attenderos succesivamente en todo a quello que fuere de vuestro consuolo de alivio a todo el clero y de la convenienzia comun, compadeziendo interiormente a mis fieles subditos en el systema presente por las hostalidades a que la violenzia de mis enemigos les ha sotopuesto, y contra las quales he mandado obrar por el uso de mis incontestables derechos, por la indemnidad y por la libertad de un Reyno, y de unos vasallos que tanto supieron distinguirse en la fidelidad a los señores Reynes de España mis Gloriosos Predecessores y en el amor a Mi Augusta Casa, confiando que todos unanimemente continuaran [segue parola di ardua trascrizione, ndr] distintivos para merecerse en lo sucesivo Mi Cesarea Real Benevolenzia y Grazias.

De Viena a doze de Iulio de mil setezientos y diez y nueve.

Io el Rey

Don Ramon de Vilana Perlas

 

Il Re

Don Diego Pirrone, Rettore Paroco della Città di Melazzo nel mio Regno di Sicilia. Con Vostra carta de’ 30 di maggio passato demostrate et accreditate il vostro amore, del Clero e del commune del popolo alla mia Cesarea Reale Persona ed Augusta Casa. Ed accettando nel mio Reale Animo le vostre espressioni con una proporzionata gratitudine, vengo ad ordinare che vi si manifesti la disposizione che ho di dispensar ed assistervi successivamente in quanto sarà di vostra consolazione, di sollievo a tutto il clero. E di vantaggio commune, compatendo internamente ai fedeli miei sudditi nel sistema presente per le ostilità a cui gli ha sottoposto la violenza de’ miei nemici, contro li quali ho ordinato che s’operarasse. Valendomi de’ miei incontrastabili diritti per l’indennità e libertà di quel Regno e di que’ vassalli, che tanto seppero distinguersi nella fedeltà verso i Signori Re di Spagna, miei Gloriosi Predecessori, e nell’amore verso dell’Augusta mia Casa. Confidando che tutti concordamente saranno per continuare in opere speciali per meritare in appresso la mia Cesarea Real Benevolenza e Grazia.

Da Vienna, 12 luglio 1719.

Io il Re

Don Raijmondo di Vigliana Perlas

 

In Messina nella Stamperia D’Amico, 1719».

 

E l’altra diretta a detti spettabili giurati e della forma sequente, pure redotta in stampa:

 

«Exemplar de la Clementissima y Augustisima letra del Potentisimo nuestro Señor

Don Carlos De Austria

de este mombre VI Imperador y terzero Rey de España de las dos Sicilias etc.

Imbiada en respuesta a la umilissima carta de la siempre Fidelisima y Leal Ciudad de Melazzo

Sobre escrito de la carta: A los fieles y amados nuestros los Iurados de nuestra Fidelisima Ciudad de Melazo en el nuestro Reyno de Sicilia

El Rey

Fieles y amados nuestros. Las expresiones con que acreditais en vuestra carta de primero de Iulio pasado vuestro reconocimiento, fidelidad y amor a mi Cesarea Real Persona y Augusta Casa hallan en mi Real animo una complida acceptazion y la persuaden a la compassion de vuestros trabaxos y de las acidentales ruinas, o menoscabos que la violencia de mis enemigos ha causado a esa Ciudad, a sus naturales, y pueblos, en cuyo conocimiento vengo en mandaros expresar con la presente mi gratitud en una parte con la fineza de vuestro fiel proceder, y la disposicion a hazeros experimentar en opra los efectos de mi Cesarea Real Clemencia, [segue parola di ardua trascrizione, ndr] de a quella distincion con que corresponde a vuestra lealtad, y que supisteis siempre mereceros en el Real Animo de los Señores Reyes de España mis Gloriosos Predecesores, y specialmente en el del Señor Rey Don Carlos Segundo mi Zio, cuyas maximas de Iusticia y de Piedad son el objeto primario de mis Paternales deseos dirigidos a imitarle en ella como immediato successor suyo, porche mis vassallos tengan en tan agradable memoria continuado el efecto de la prosperidad, de el consuelo, y de la satisfacion comun.

De Vienna a 29 de agosto del 1719

Yo el Rey

Don Ramon de Villana Perlas.

 

Copia della Clementissima lettera dell’Augustissimo e Potentissimo Nostro Signore

Don Carlo di Austria

di questo nome VI Imperatore e Terzo Re delle Spagne, delle due Sicilie etc.

Fatta in risposta della umilissima carta della sempre Fedelissima e Leale  Città di Melazzo

Soprascritto della lettera: Alli fedeli ed amati nostri Giurati della nostra Fedelissima città di Melazzo nel nostro Regno di Sicilia

Il Re

Fedeli ed amati nostri. L’espressioni con le quali accreditate nella vostra lettera del primo di luglio passado la vostra recognizione, fedeltà ed amore alla mia Cesarea Real Persona ed Augusta Casa trovano nel mio Regio animo una compita accettazione e lo muovono a compassione de’ vostri travagli e delle fortuite rovine o detrimenti che la violenza delli miei nemici ha causato a cotesta città, alli suoi naturali e popoli. In riconoscimento di che vengo ad espressarvi con la presente la mia gratitudine, in una parte per la finezza del vostro fedele procedimento e la mia inclinazione a farvi sperimentare, in altra, l’effetti della mia Cesarea Real Clemenza, con quella distinzione che corrisponde alla vostra fedeltà. Con la quale sapeste sempre meritarvi nel Regio animo delli Signori Re di Spagna miei Gloriosi Antecessori, e particolarmente in quello del Signor Re Don Carlo II mio zio, le di cui massime di Giustizia e di Pietà sono il principale oggetto delli miei Paterni desiderij, drizzati ad imitarlo in quella, come suo immediato successore. Acciocché li miei vassalli abbiano in sì gradita memoria il continuato effetto della prosperità, del sollievo e della commune contentezza.

Da Vienna a 29 agosto 1719

Io il Re

D. Ramon de Villana Perlas

 

Stampate nella Regia Stamperia D’Amico con licenza de’Superiori» [Nota a margine, ndr: Solamente potei conseguire copia della lettera stampata alli signori giurati].

 

9 agosto 1719

Costantino Pinto, nato a Milazzo e figlio d’un soldato spagnolo, racconta alcuni particolari del suo viaggio da Messina effettuato col capitano spagnolo presso cui prestava servizio, riferendo che le truppe imperiali avevano conquistato Messina 9 agosto. In questo giorno venne in questa città Costantino Pinto, nativo in essa, figlio d’un soldato spagnuolo residente in questo Castello in tempo che dominava il Re di Spagna nel Regno. Il quale di Pinto da più tempo si ritrovava nella città di Messina a’ servizij d’un capitano spagnolo. Condotto innanzi il comandante di questa, riferì che sino a quel tempo dominavano gli Spagnoli in quella città e che sudetto capitano si partì unitamente col sacerdote Don Tomaso Terranova da essa città. Il quale pure era restato nella Piana di questa dal principio dell’ambrocco delli Spagnoli. E pervenuti tutti sino alla Marina di Spadafora, ove il sudetto sacerdote di Terranova si conferì nella terra della Rocca per vedere al Signor Ottavio Terranova, suo fratello, in quella terra retirato[si] doppo la partenza delli Spagnuoli per non avere casa per abitare in questa, essendoli la sua stata dirupata per legna. Ed il sudetto capitano proseguì il viaggio sino nella città di Puzzo di Gotto con esso di Pinto. Con tutto che commorando in quella città, questi se n’avesse fuggito e retiratosi in questa città. Riferì pure che detto capitano per la strada sempre caminò con molto spavento, temendo che non fosse sorpreso dalle truppe tudesche. Ed inoltre che il signor generale Spinola s’abbia retirato nella Cittadella con le truppe e soldatesche spagnuole. Che il bastione Gonzaga stava per cadere colla resa alli Tudeschi e che la casa di Messina fu molto vessata con bombe dalli Tudeschi. Tanto che fu necessario retirarsi gli Spagnuoli coll’entrata dell’armee cesaree. Il che si descriverà da molti scrittori che in quella si ritrovavano.

 

10-14 agosto 1719

Gli Spagnoli sconfitti si ritirano a Messina nella Cittadella e nella fortezza del Salvatore 10 agosto sino a 14 detto. Sussequentemente si publicò bando in questa che nella città di Messina entrarono li Tedeschi con aversi reso tutti gli bastioni. E che realmente gli Spagnuoli s’abbiano retirato nella Cittadella e nel Castello del Salvadore. E che si prattica [segue lacuna nella copia, ndr] di dette fortezze. Bensì abbiano seguito molte batterie d’una parte e l’altra coll’uccisione di migliara di Tedeschi e pure di Spagnuoli.

 

15 agosto 1719

Torna da Messina il parroco di contrada S. Marina don Giovanni Pisano, imprigionato da oltre un mese nelle prigioni spagnole 15 agosto. Venne da Messina il sacerdote Don Giovanni Pisano per mare con feluga del Padron Gaetano XXmiglia [Ventimiglia, ndr], tutti di questa città. Il quale sacerdote da giorni quaranta che si ritrovava carcerato nel palazzo di essa città per essere stato preso nel casale di Santa Marina d’alcune truppe spagnuole e da quelle condotto in detta città prigioniero. Ed in dette carceri molto soffrì, ma resa la città all’arme cesaree, in tempo che il sudetto sacerdote di Pisano stava per componersi ad effetto di conseguire la libertà dalli Spagnuoli, di subbito fu scarcerato. Raccontò, fra l’altri patimenti che li parvero più sensibili ed atroci, intese che nella presa che seguì d’esso sacerdote in detto casale fu con molta violenza legato dalli villani pure della Piana, li quali erano suoi conoscenti e sotto la sua Parocchia, per avere stato il sudetto sacerdote di Pisano per molt’anni continuati, come infatti si ritrovava quando fu preso, paroco di detto casale. Specialmente da [segue lacuna nella copia, ndr] Scibilia e [segue lacuna nella copia, ndr] Mazzù, con averlo questi condotto così stretto sino in Messina. E questo tratto usato al sudetto li sembrò molto insoffribile.

 

16 agosto 1719

La Piana in mano ai malviventi dell’hintelrland al seguito delle truppe spagnole 16 agosto. Dal tempo che partì tutto l’esercito tudesco in traccia delli Spagnuoli sino a Francavilla (come si disse), per tutto sudetto mese la città si retrovava stretta, non potendo gli cittadini uscire nella Piana per osservare le loro disfatte possessioni, per esser continuamente piena non solo di ladroni villani della Comarca, pure di molte truppe spagnuole, quali tutte assassinavano quello ritrovavano. E benché alcun cittadino o plebeo avesse arrischiato uscire in detta Piana per loro negozij o per provecciarsi d’alcun vivere, stante la scarsezza che si ritrovava in città e col permesso in scriptis del signor comandante della Piazza, pure si trasferia con molto spavento per non restar prigioniero (con tutto che dovea retornare la sera) di dette truppe spagnuole accompagnate da detti villani prattici in tutta detta Piana e Comarca. La quale era alla devozione di detti Spagnuoli, anzi molto con quelli affezionata, avendosi pure promulgato che sudetti villani uniti con le truppe nemiche aveano ordine espresso dagli loro comandanti, retrovandosi sempre alcuno o nella città di Santa Lucia o in quella di Puzzo di Gotto o nel casale di Barsalona o nella città del Castro Reale o in altra parte convicina.

 

Penuria di viveri in città ed adulterazioni alimentari Perloché tutti gli cittadini erano non solo afflitti per la perdita di tutti li loro beni, pure per ritrovarsi con molta penuria e scarsezza d’ogni vittovaglia. Compandosi strettamente con alcuni pochi viveri che di rado erano condotti da Calabria ed alle volte con alcuna feluga da Lipari. Li quali in nessun modo erano sufficienti per cibarsi gli poveri paesani. Magiormente che gli officiali tudeschi volevano essere loro li primi provisti nella compra di detti viveri, conseguendo gli cittadini il remanente, benché fetido, refiutato dalli sudetti officiali. Tanto che il pane ad onze dodeci, composto di farine meschiate di luppini, orgio ed altri, di più mal condizionato e non cotto per crescere il peso, per grana quattro. Oltreché dette farine puzzavano, onde si può considerare di che condizione riusciva detto pane. Il vino conzato con sandali [tagliato, miscelato con polveri coloranti, ndr] ed altri. Il che oculatamente si scorgea nell’odore, colore e sapore, puotendosi bevere solamente la metà. Restando l’altra nel vaso tutta sporca e piena della composizione fraposta per rendersi colorita e rossa, a grana otto il quartuccio. Oltre che non si puoteva bevere con alcuna ancorché menoma porzione d’acqua. La carne, benché si facesse credere per necessità di crasto con mille spergiuri dalli venditori, quando peraltro era di craponi, e quella di bove di quelli del presepe, tutte le volte che si puoteva con mille preci aversi, si comprava a tarì uno e più grana il rotolo. Almeno s’avessero venduti tutti sudetti viveri col peso giusto. La neve pria si vendeva a grana diece il rotolo, doppo a grana sei. Con tutto che fosse stata piena d’acqua e non bene infossata, ma venuta da Calabria, raccolta in alcuni appendici e non conservata in fosse. Tanto che nell’instante che si comprava di subbito si liquefacea. E di più non era continua. Inoltre in nessun modo si ritrovava alcun frutto né secco, né fresco, né legumi, né riso, né pasta, né erbe di qualunque sorte. Insomma la città era molto affamata. Basta a dirsi che una cipolla infracidita tutte le volte che s’avesse ritrovato si vendeva a grano uno per ognuna. Un ovo nemeno si ritrovava per grana quattro, una gallina per gli ammalati non si puoteva avere per tarì dodeci in quattordici. E benché dal principio d’agosto avessero continuato caldi eccessivi ed intolerabili, nondimeno per bontà divina, con tutto che corressero febri maligne e quasi pestilenziali tra gli abitanti paesani, specialmente con dissenteria e febri lentissime, non fu la mortalità notabile, ma una convalescenza molto lunga.

 

Alta mortalità tra le truppe imperiali, prima sensibili nei confronti della popolazione, ben presto divenute prepotenti E nelli soldati tudeschi, al contrario delli cittadini, o per mancanza di medicamenti o per puoca cura, o per ritrovarsi gl’infermi in luoghi non aperti né purificati, giornalmente tra essi la morte trionfava, vedendosi perire ogni giorno più di venti, anzi più. Perloché, scorgendosi e le necessità del vitto e l’altre congetture che ogni dì si vedevano, facilmente si possano reflettere l’angustie d’un publico affanno. Pure da quei che furono assenti, con tutto che sudetti patimenti sembrassero incredibili.

In quei tempi così calamitosi, avendosi considerazione a’ tanti travagli dalli cittadini sofferti per il passato, come a quelli che di continuo attualmente si provavano, dalli officiali tudeschi s’avea alcuna compassione, stimandosi gli naturali con qualche equità. Specialmente dal signor comandante della Piazza, con ingerirsi questi che li cittadini non fossero vessati dalle truppe, mentre detto signor comandante per sua speciale bontà esercitava il suo governo con ogn’attenzione, volendo che gli soldati e loro officiali non s’ingerissero cogli abitatori. E, tutti invigilando al servizio della Maestà sua Cesarea e Catolica, si vivea almeno tra tant’afflizioni con questo sollievo, dispiacendo alli cittadini che non intendevano l’idioma alemano, per aver maggior campo d’accomunarsi con la nazione tudesca. Bensì molti di essi, parlando in lingua italiana, specialmente gli officiali, si facevano intendere dalli cittadini e communemente tra loro si discorrea con ogni tranquillità. Ed avesse piaciuto alla Maestà Divina che avesse sempre proseguito la piacevolezza commune. Ma fu breve tal consolazione. Poiché gli soldati col tempo si fecero molto insolenti, per non dir altro.

 

Militari spagnoli disertano dalla cavalleria spagnola Continuamente e da più giorni venivano in questa città molti desertori spagnuoli, particolarmente soldati di cavallo, con fuggirsene dal loro campo e d’altre parti della Comarca. E sotto li 15 di detto mese agosto vennero uniti quattordici di essi, con aversi venduto gli cavalli di baratto. E solamente riferirono che il viceré spagnuolo, il marchese di Lede, s’abbia fortificato con tutte le sue truppe in Francavilla con molte trinciere e ripari, aspettando dal loro Re gli aiuti necessarij. Ed altre dicerie a favore della loro nazione. Onde, per non darsi campo di parlare con bugie, nell’instante si procurava l’imbarco per Calabria, gradito nonché da essi, [pure] dall’officiali tudeschi che governavano nella città. Poiché alcuni di detti desertori erano tanto pronti nel parlare senz’alcun timore che, celibrandosi [parola di dubbia trascrizione, ndr] gli spagnoli, alle volte si rendevano stomachevoli a chi l’intendea.

 

17 agosto 1719

Malviventi dell’hinterland attaccano alcuni pescatori in prossimità della Tonnara di Milazzo 17 agosto. Alcuni villani di questa Comarca, fatti molto insolenti, ardirono venire sino alla Marina vicino la Tonnara di Melazzo, con aver disparato quantità di scopettate ad alcuni poveri marinari, li quali s’aveano condotto in quello scaro colle sue [loro, ndr] barche per pescare. E con tutto che fossero questi stati assediati con molte palle di schioppi nelle loro barche, nondimeno restarono senz’offesa alcuna, retirandosi con ogni sollecitudine in questo porto.

Dal che si può considerare l’alterigia bestiale di detti villani, li quali non avendo avuto alcun riguardo - che in questa città e fuori di essa assistevano molte truppe di cavalleria a pochi passi lontani da detta Tonnara - pure con molta presunzione azzardarono assaltare detti marinari per farli prigionieri o per assassinarli, togliendoli dette barche.

 

Gugliemo Colonna nominato giudice del Tribunale della Gran Corte Avendo partito tutto l’esercito tudesco da questa città nella traccia delli Spagnuoli sino a Francavilla, pure marciò il dottor Don Guglielmo Colonna col carico di commissario generale per la Comarca, conferitoli tal carica dal generale Mercij, generale comandante di tutto sudetto campo (come si scrisse). In questo giorno s’ebbe relazione che, conferitosi con l’esercito nella città di Messina, avesse conseguito l’offizio di giudice del Tribunale della Regia Gran Corte e che avrebbe [avuto] altri posti magiori col tempo.

 

18 agosto 1719

Gigantesco incendio nella Piana, causato da alcune unità di cavalleria spagnola che appiccano il fuoco nel proprio ex accampamento, da contrada Casazza sino al Parco18 agosto. In questo giorno, ben mattino, si fece a vedere nella Piana, vicino le porte della città, pochi passi nella contrata di San Giovanni, una truppa di cavalleria spagnola. Perloché dalla città si dispararono due tiri di cannoni per fugare alli detti spagnuoli. Anzi, d’ordine del signor comandante della Piazza, uscirono alcune truppe tudesche per discacciare gli nemici, li quali furono forzati retirarsi assieme con molti villani che con essi s’aveano uniti. Bensì diedero fuoco a tutto il campo, ove prima del loro svergognato retiramento si ritrovavano accampati li sudetti spagnuoli. E s’osservò dalla città l’incendio, il quale per essere molto spazioso - per aversi dato fuoco dal principio sino al fine di detto campo per lo spazio continuato di due miglia - si credea infallibilmente che, dilatandosi per le parti convicine, avrebbe incendiato dell’intutto la Piana. Magiormente che sin allora si ritrovava sudetto campo ripieno di più migliara cantara di legna, fascine e canne secche. Ma per la grazia del sommo Dio e per intercessione